La nascita di un bambino, anche se, portata positivamente a termine può non rappresentare un evento, in tutto e per tutto, felice e gioioso.
Per certi versi, la nascita può costituire una sorta di violenza nei confronti di quell’unione speciale tra la madre ed il bambino, che viene sperimentata fino alla nascita, sia sul piano fisico che psichico.
La venuta al mondo del piccolo va a rompere quella magica fusione con il bambino immaginario, fantasticato durante la gravidanza e obbliga la madre a confrontarsi con quell’esserino sconosciuto, in cui sembra non riconoscere quei tratti familiari del bambino portato in grembo per nove mesi.
Gli effetti di questa rottura possono essere visibili in quel malessere, tipico del post partum, conosciuto col nome di maternity blues, che possiamo definire come uno stato di tristezza generalizzata della madre.
Questa condizione si colloca in una posizione intermedia tra normalità e psicopatologia, manifestandosi in sintomi quali: pianti, senso di confusione, bruschi sbalzi di umore, irritabilità, stanchezza, insonnia, ostilità e senso di incompetenza rispetto alle cure basilari da offrire al neonato, che diventa una figura generatrice di ansia.
Possiamo osservare questa sintomatologia nei dieci giorni successivi al parto, con una durata che va da qualche ora a qualche giorno, raggiungendo il culmine dell’intensità tra il terzo ed il quarto giorno.
Tale fenomeno può costituire un campanello di allarme rispetto ad un vero e proprio esordio depressivo, che spesso, viene sottovalutato dai professionisti sanitari del settore, che tendono, invece, ad etichettare la cosa come uno stato passeggero di tristezza, che scomparirà, una volta, fatto ritorno a casa.
In effetti questa condizione di malinconia ed irritabilità ha, certamente, carattere di reversibilità, se, la neomamma può contare su di una rete di sostegno adeguata da parte di familiari, amici e professionisti che la seguono.
Diversamente, la donna trova difficoltà nell’affrontare le vicissitudini della gravidanza e del parto, che si prefigurano come eventi così preganti, da un punto di vista emotivo, da necessitare della presenza dell’altro per elaborarne il senso profondo.
Il potere della condivisione
Se pensiamo agli scenari familiari e culturali del passato, l’ampia rete parentale al femminile rappresentava, indubbiamente, una grande risorsa che, attraverso il confronto, permetteva alla donna di non trovarsi totalmente impreparata di fronte all’esperienza della maternità.
Spesso, infatti, la condivisione e la narrazione dei vissuti personali permettevano e permettono di esorcizzare quelle naturali fantasie, paure e sentimenti “negativi” (come l’ostilità verso il proprio bambino), che affollano solitamente la mente della donna, opprimendola con pesanti sensi di colpa e timori di poter far del male al bambino.
Winnicott D., una delle voci più autorevoli, nel campo della psicologia dell’età evolutiva diceva che : “Una parola al momento opportuno fa giustizia a tutti quanti i rancori, sono convinto, per dirla in termini pratici, che sia utile far toccare con mano alle madri i loro risentimenti, anche i più “aspri”. Condividere il mestiere di mamma, sollevare la coltre di solitudine consente alla mamma stessa, non più idealizzata, di “odiare” a volte il suo bambino, senza mai fargliela pagare”.
Non tutti i mali vengono per nuocere
L’importanza, data, al momento della condivisione da Winnicott mette, sicuramente, in evidenza l’aspetto fisiologico che caratterizza la fase malinconica dei maternity blues.
Stato emotivo che, in molte occasioni, può, addirittura, costituire una forma di difesa nei confronti di una possibile sindrome depressiva, per la forma temperata e non prolungata nel tempo, che apre la strada a quella posizione di estrema sensibilità ed empatia materne, che permette alla donna di decifrare prontamente i bisogni del suo neonato.
Bibliografia e approfondimenti
Winnicott D., (1948), Dalla pediatria alla psicoanalisi,ed. Martinelli 1974, Firenze.